Ci sono tre o quattro tormentoni nel dibattito dopo Bruxelles.
Il primo riguarda le smagliature dell’intelligence belga, e lo scarso collegamento europeo al riguardo. Entrambe evidenti, ma il problema sta a monte, ed è la determinazione politica a combattere il terrorismo. Non solo quando è distante migliaia di chilometri, ma quando si muove in Europa. Per anni ci si è illusi che fosse solo un problema americano e il frutto delle politiche di Bush, e noi eravamo spettatori. Per anni, nella illusoria convinzione che le primavere arabe avrebbero portato democrazia e pace, si è lasciato via libera ai militanti fondamentalisti: erano nemici sì di Mubarak, di Gheddafi, di Assad e di Ben Alì, ma anche nostri. Per anni – mentre gli americani si facevano beffe di ogni diritto a Guantanamo – i nostri giudici si sono comportati con candore (devo ricordar il caso di Abu Omar, o quello di Moez Fezzani, probabilmente una delle menti del sequestro dei quattro italiani in Libia, assolto dal tribunale di Milano?). Ancora oggi continuiamo a considerare un tabù la sospensione di Schengen, un santuario la privacy delle comunicazioni, un totem le garanzie che spettano a ogni indagato. La domanda cui i politici dovrebbero rispondere è: si può combattere il terrorismo con i modi quieti e normali di una pacifica democrazia oppure no ? La risposta è difficile: è duro rinunciare a quello che fa dell’Europa uno spazio dei diritti e delle libertà, ed è triste considerare questi spazi un lusso che non ci possiamo più permettere. Ma governare i conflitti richiede chiarezza, non lacrime e luoghi comuni.
Il secondo tormentone, molto diffuso, è il ritornello sulle colpe dell’Occidente. Evidenti anch’esse, nella guerra in Iraq, nella fine di Gheddafi, nell’ambiguità di molti alleati, Turchia o Arabia Saudita, nel confuso atteggiamento verso alcuni protagonisti, ribelli siriani o fratelli musulmani. Ripetercelo come un mantra ci impedisce di capire la natura del nemico, il suo essere figlio anche di un processo autonomo, che ha radici nel fondamentalismo islamico, nel conflitto settario tra sunniti e sciti, nello scontro di egemonia tra Iran e Arabia Saudita. Siamo tanti piccoli Michael Moore: tutto ha inizio e fine in Occidente, persino l’11 settembre, siamo noi a occupare tutti i ruoli in commedia, il nemico è una comparsa. Tra l’altro, è il comodo mantra di molti quieti musulmani: l’Isis è figlio degli USA e di Israele.
Il terzo tormentone è: “la religione non c’entra”. Rassicurante e banale: quale Dio può spingere a uccidere ? La forza attrattiva dello Stato islamico sta invece proprio in una sua letterale interpretazione dei testi sacri, nel suo richiamo identitario. Cosa pensate abbiano gridato in arabo i terroristi all’aeroporto ? E’ un abuso del nome di Dio, certo. Ma non urlano, uccidendo e sgozzando, il nome della patria, o della tribù, o di qualche altro idolo. Né si uccidono pensando all’onore, o alla stanchezza di vivere, o alla solitudine. Lo chiamano “martirio”. I martiri cristiani sacrificavano la propria vita, non quella di altri. Potete chiamarli Daesh – come un fustino di detersivo – pur di non dire “islamico”, ma non cambia. Possono, i miei colleghi, chiamarli “Kamikaze” abusando la memoria di un altro tipo di combattenti, che non uccidevano i civili inermi, ma i fatti non cambiano.
La quarta preoccupazione di molti è risparmiare, salvare i flussi migratori: tanto questi sono nati e cresciuti qui. Non si accorgono che questo equivale a testimoniare il fallimento dell’integrazione, e a condannare gli effetti a lungo termine dell’accoglienza. Bisognerebbe essere chiari: fuggire da una guerra vuol dire essere ospitati in campi profughi – e non vergognosi come quelli in cui un’umanità avvilita sopravvive – in attesa di un ritorno a casa, non vuol dire diritto ad andare ovunque. Se ci fosse una guerra in Italia mi aspetto di poter trovare riparo in qualche campo sicuro e degno ai bordi del mio paese, posso aspettarmi il diritto di andare a vivere, senza alcuna regolare procedura, in Alaska o in Australia ? E persino le richieste di asilo, che chiunque può avanzare andrebbero riviste: che diritto ha un afghano o un pakistano di chiederlo ? Non c’è nulla di vergognoso in voler migliorare la propria vita, ma sei un immigrato economico e il cambio della tua vita non può iniziare nell’illegalità. E accoglienza vuol dire lavoro e integrazione, diritti e doveri, non Caritas e ghetti.
Il quinto – e niente paura, ultimo – affanno di tanti è “salvare” le comunità islamiche. I miei colleghi continuano a ripetere: colpito il cuore dell’Europa. Macchè, non si sono affacciati, i terroristi, alla Commissione Europea o al consiglio d’Europa, non hanno mirato ai burocrati o agli europarlamentari. Hanno colpito noi, i cittadini inermi. Hanno colpito dove era più facile, dove potevano contare su complicità, omertà, silenzi, paura di denunciare. Quattrocento sono i belgi che sono andati a uccidere in Siria e Iraq. Quanti famigliari e amici hanno alle spalle ? Gente che magari dissente, ma denuncerebbe mai un “collega” del congiunto ? In che comunità sono cresciuti, questi Breivick dell’Islam ? Comunità chiuse, e certo non aiutate a integrarsi in un Belgio diviso tra valloni e fiamminghi. Famiglie in cui l’appartenenza identitaria vuol dire sposare una correligionaria, evitare costumi troppo occidentali, non perdersi in un’Europa che va bene solo quando fornisce assistenza sociale e lavoro, non cultura, stili di vita, libertà della donna, laicità o addirittura la libertà di scegliere un’altra religione, o nessuna. C’è un ottimismo volenteroso e beneaugurante che ha portato il Comune di Milano a sponsorizzare un progetto della comunità islamica rivolto all’ educazione dei maschi al rispetto della donna. Sapete come si chiama il progetto ? Aisha, come la moglie bambina di Maometto. Persino gli impertinenti di Striscia non se ne sono accorti, raccontando una ingenua pedalata di donne islamiche nelle strade di Milano. E’ islamofobia ? Neanche per idea: mi piacerebbe solo che le comunità islamiche, alla vista di un fondamentalista, reagissero come delle madri che scoprono uno spacciatore davanti alla scuola dei figli.
In attesa che i nostri politici, alla prossima strage e al prossimo talk show, riprendano il gioco dei buoni e dei cattivi.