Adesso che trova conferma il sospetto che l’autopsia libica sui corpi di Failla e Piano fosse nello stesso tempo la riaffermazione di una vuota sovranità e il tentativo di rendere più confuse le circostanze della loro morte, qualcosa è invece più chiaro. I due italiani sono rimasti uccisi in un agguato nel quale è caduta la prima automobile del piccolo convoglio. Dalla seconda auto gli occupanti sono scesi probabilmente per arrendersi, e sono stati uccisi a freddo da più colpi, come succede in una guerra in cui non si fanno prigionieri. Era piuttosto chiaro già dalle foto pubblicate sul sito della brigata islamica autrice dell’agguato, dove si vede il corpo di una vittima, ma l’auto senza neppure un finestrino rotto, prima di essere bruciata. Ed era chiaro anche perché nelle prime immagini pubblicate sul sito, i due italiani riversi sul terreno venivano indicati come combattenti stranieri. Quando si sono accorti dello sbaglio, hanno cercato di accreditare altre versioni, e intorbidare l’autopsia.
Merita attenzione, adesso, la circostanza riferita, nella sua giusta rabbia, da Rosalba Failla: al telefono uno dei sequestratori le parlò in italiano. Calcagno, che secondo alcuni titoli la smentirebbe, dice invece di non aver mai incontrato qualcuno che parlasse italiano, ma di aver ricevuto raccomandazione di non dire cose sgradite nei contatti telefonici e nelle registrazioni, perché i sequestratori contavano su qualcuno in grado di capirle.
Chi poteva essere ? Avrebbe potuto essere il capo del gruppo, quel Nureddine Chouchane che aveva vissuto a lungo in Italia, e che è rimasto ucciso nell’incursione americana sul covo di Sabratha lo scorso 19 febbraio, Avrebbe potuto essere qualcun altro. Ad esempio un altro tunisino, Moez Fezzani, nome di battaglia Abu Nassim. Che è sopravvissuto al raid del 19 febbraio, e anche agli agguati di questi giorni, se è vero che ha guidato l’assalto alla città tunisina di Ben Guerdane. Che cosa è successo ? La cellula di Ansar Al Sharia, ormai completamente organica allo Stato Islamico che le aveva affidato il compito di reclutamento e smistamento di combattenti verso Sirte, in rotta, si è ritirata verso la madrepatria, la Tunisia. E lì, lunedì, con un piano non si sa se più ambizioso o disperato, ha dato l’assalto alla cittadina di Ben Guerdane, a trenta chilometri dal confine, con l’intento di proclamare una nuova provincia dello Stato Islamico, dentro la Tunisia. Contavano sicuramente su qualche simpatizzante, ma si aspettavano una vera insurrezione, nella città che vive di contrabbandi con la Libia. Non è andata così, e anzi, oltre che con la forte reazione delle forze dell’ordine e dell’esercito, hanno dovuto fare i conti anche con le pietrate con cui i civili li hanno bersagliati. Sconfitti, hanno lasciato sul terreno decine di vittime. Nella democratica Tunisia, oltre allo sconcerto, alla paura e al sollievo, adesso si dibatte sul selfie che un soldato si è scattato accanto ai nemici morti: c’è chi lo esalta, e chi dice che così facendo si finisce per assomigliare ai terroristi..
Moez Mezzani, che avrebbe diretto l’attacco dalle retrovie, è scampato ai rastrellamenti. Riapparirà: è uno specialista dello sparire nel nulla e ricomparire altrove, un terrorista dalle sette vite. Alcune delle quali trascorse in Italia. Nato a Tunisi il 23 marzo 1969, arriva a Milano a vent’anni e trova subito lavoro nell’edilizia. Va ad abitare con un amico in un appartamento in via Paravia 84, dalle parti di San Siro. Per anni è un lavoratore instancabile, e in regola. L’incontro con l’Islam combattente avviene negli anni ’90 attraverso un predicatore reduce dalla guerra in Bosnia. L’appartamento di via Paravia diventa una base per una ventina di ex combattenti che vivono tra Milano e Bologna. Il primo problema con la polizia è un reato in apparenza minore: nel 1997 Fezzani viene sorpreso a smerciare banconote false in bar e negozi tra Milano e Cremona. Nel 1998 la Procura e la Digos fanno scattare una delle prime retate di jihadisti, chiamata “operazione ritorno” perché riguarda proprio quei reduci dalla guerra in Bosnia. Dopo la Bosnia, dove i mujaheddin sono rimasti sostanzialmente isolati a Zenica, la guerra jihadista è esplosa in Algeria. E in Italia Fezzani è accusato proprio di sostenere i terroristi algerini, inviando reclute dal Pakistan e soldi da Milano, frutto dello smercio di banconote false. Ma quando scattano gli ordini di custodia cautelare, Fezzani è irreperibile. Sono scomparsi anche gli altri della rete italiana, sparsi sui fronti : tre tunisini muoiono in attentati-kamikaze in Iraq, il suo coinquilino di San Siro, dopo l’Algeria, verrà ucciso a Tunisi, nel dicembre 2006, mentre guida un commando armato.
Fezzani è andato più lontano: riappare in Pakistan, a Peshawar. Ha sposato una pakistana, è diventato padre (da allora diventa Abu Nassim), ma soprattutto è il responsabile della “casa dei tunisini a Peshawar»: è Abu Nassim ad accogliere i giovani e a smistarli nei campi talebani in Afghanistan dove imparano a usare armi ed esplosivi. Dopo l’11 settembre 2001, Abu Nassim viene catturato dagli americani e rinchiuso a Bagram, dove resta detenuto per anni, e infine trasferito a Guantanamo. Dove entra a far parte di un groviglio politico e giudiziario tra Stati Uniti e Italia: un “pacchetto” di tre detenuti che gli americani passano a Roma nel 2009. Obama vuole svuotare Guantanamo, e ritoccare un po’ quello che rappresenta, una sospensione dei diritti, le mani libere nel combattere il terrorismo. Maroni e Frattini , ministri degli Interni e degli Esteri sono perplessi. La magistratura italiana ha regole e garanzie diverse, ma c’è un appiglio: il 4 giugno 2007 il giudice milanese Guido Salvini ha emesso un’ ordinanza di custodia contro Fezzani per associazione terrorista, quale organizzatore del flusso di combattenti che dalle moschee milanesi di viale Jenner e via Quaranta verso l’Afghanistan. Così Fezzani nel novembre 2009 ritorna in Italia, con altri due ex di Guantanamo. Una consegna anomala perché una richiesta italiana di estradizione non è mai stata fatta, o meglio la richiesta della Procura di Milano è stata bloccata al Ministero perché Guantanamo è a Cuba e rivolgere una richiesta di estradizione da un carcere che non dovrebbe esistere è irrituale. Ridiventato così un nostro imputato, Abu Nassim resta in carcere in Italia fino al marzo 2012. L’imbarazzo della magistratura italiana è evidente e si traduce in una clamorosa assoluzione. Per il Tribunale di Milano Fezzani è “solo” un ideologo, non un combattente. Fezzani è libero, ma il Ministero degli Interni ne ordina comunque l’espulsione come soggetto pericoloso. Nell’aprile 2012 la polizia lo sta portando alla Malpensa quando riesce ad aprire una portiera e a lanciarsi dall’auto in corsa. E scompare, rifugiandosi in casa di un amico a Varese. Dove la polizia lo rintraccia e stavolta riesce a caricarlo su un aereo. Non senza lanciare una sfida: “Sentirete di nuovo parlare di me”.
In Tunisia – in quel momento governata dal partito islamico – torna libero. Nell’autunno 2013 Abu Nassim parte per la guerra in Siria con la brigata Al Battar, la prima a giurare obbedienza al Califfato. Nel 2014 si sposta in Libia, per gestire il nuovo campo per jihadisti, a Sabratha.
Le autorità tunisine dichiarano ufficialmente che i due terroristi della strage al museo del Bardo, così come il killer dei turisti sulla spiaggia di Soussa, sarebbero stati addestrati insieme in un campo dell’Isis in Libia. Proprio quello di Sabratha.
Può essere rimasto estraneo, Fezzani, al sequestro di quattro italiani ? Certo non era un semplice carceriere. La sua non è la storia del londinese di seconda generazione, o del rapper tedesco, o della ragazzina austriaca che raggiungono la jihad. Ha quasi cinquant’anni, è un capo, appartiene al nocciolo duro dell’islam combattente, temprato da anni di guerre. Era lui al telefono, o era un suo allievo a controllare gli appelli degli ostaggi. Ha controllato lui le trattative, quando il governo e l’azienda italiana si palleggiavano la grana rovente del riscatto ?
Non lo sappiamo, ma sappiamo che Fezzani sta facendo parlare di sé, di nuovo. E troviamo reticente il silenzio sul suo ruolo e le ripetute affermazioni sul profilo da criminali comuni dei sequestratori. Non ho ragione alcuna di dubitare dell’impegno dell’intelligence e delle polizie italiane: il fatto di aver evitato sinora guai peggiori – ultimo l’arresto dell’imam di Campobasso – stanno a testimoniarlo. Meno attrezzata, culturalmente, la magistratura (siamo il Paese che deve risarcire qualche decina di migliaia di euro ad Abu Omar….). E disarmante la politica, sempre timorosa di generare allarmi e sospetti, di turbare le politiche dell’accoglienza, fino a nascondere la realtà non esile dello jihadismo italiano. Questione di correttezza politica. La stessa che ha spinto il capo di stato maggiore della Marina militare italiana a scrivere un libro- “Sos uomo in mare” – sulla meritoria attività di salvataggio di migranti e sul recupero delle salme in mare. Aspettiamo “Sos uomini in India”, resoconto di un’operazione meno brillante.