Debbo confessare che, quando si è capito che lo jihadista ucciso da un cecchino donna curdo a Kobane non era italiano, ho provato una specie di sollievo. Mi era stato risparmiato l’imbarazzo di maneggiare una vita deragliata come era stata quella di Giuliano Del Nevo, di incontrare un dolore di famiglie che cercano di trovare comunque un senso a quella scelta, di interrogarmi su quello che può portare un italiano in mezzo ai tagliagole. Ma poi ho cercato di sapere e capire comunque: era pur sempre un immigrato vissuto tra noi, e che dall’Italia era partito per la Siria.
La prima cosa che mi ha incuriosito era l’aspetto di quello che si faceva chiamare Abo’u Izat Al Islam. Nella mia pagina Facebook, tra molti commenti aspri, qualcuno con più leggerezza aveva trovato una somiglianza con l’attore Stefano Accorsi. Non lo so, ma è certo che aveva una faccia aperta, un bel sorriso, e l’aria simpatica. Era la faccia di Neji Ben Amara, il suo vero nome. Ho trovato qualcuno che l’aveva sfiorato, a Milano. Un bar del centro dove andava a bere il caffè, e la descrizione che mi è stata fatta è questa- “un ragazzo simpatico, cordiale, appassionato di calcio. Nulla che non fosse normale, tranne il fatto che era molto magro…”.
A Milano aveva fatto il cameriere. L’ultimo di una serie di lavori che hanno accompagnato il suo soggiorno italiano, per più di dieci anni. Tra gli ultimi, a Cervia, un posto in una fabbrica di pellami, e il bagnino addetto alle sdraio e agli ombrelloni. Non è chiaro se tanti cambiamenti nel lavoro venissero da una sua instabilità o dalla precarietà del mercato, ma non ha mai avuto problemi economici: non aveva famiglia, e non aveva neppure una famiglia d’origine, a Tunisi, da dover mantenere. Era un bel ragazzo, ma non aveva una fidanzata, e nessuno tra quelli che me ne hanno parlato ha colto una qualche stranezza nel fatto che fosse solo, a trentasei anni. Chi me l’ha descritto ha usato le stesse parole milanesi: simpatico, cordiale, tranquillo.
Era in Italia dal 2001, e vi era giunto per vie regolari. Andava in moschea ? Non più di tanti altri, e senza passioni fuori dal comune. E allora cos’è che lo ha cambiato?
Forse, un mese passato a Tunisi. La Tunisia è il paese che ha fornito più uomini, e donne, all’ISIS. E’ l’unica primavera araba, oltre a essere la prima, che non finita nel sangue. Per un po’ è stata governata da un partito islamico, che ha accettato di farsi indietro dopo una performance di governo deludente soprattutto sul piano economico, ed è stato sconfitto alle ultime elezioni da un partito laico. Ma il paese è attraversato da minacce terroristiche e la sua gioventù è spesso divisa tra tentazioni europee e illusione jihadiste. Gli imam delle moschee giocano un ruolo forte in questo disorientamento. Sembra che sia bastato un mese per fare di lui un’ altra persona. E sembra sia stato un imam del suo quartiere, Debouzville, una schiera di casermoni a sud della città, a indottrinarlo. Sta di fatto che al ritorno, Neji è un altro.
Curiosamente tiene distinta questa sua nuova vita dalla vecchia: agli amici di un tempo non rivela nulla. L’unico terreno aperto, quasi un confessionale, diventa Facebook. Il suo profilo viene cancellato probabilmente perchè vi compaiono messaggi inquietanti. Parte per la Siria. Da Libano, alcuni mi dicono che in un primo momento si presenta a gruppi di ribelli anti Assad ma non fondamentalisti. E la stessa fonte sostiene che sarebbe stato mandato a fare addestramento in un campo gestito da americani in Giordania. Impossibile verificarlo, ma è certo che si unisce all’ ISIS. E crea un nuovo profilo Facebook, che sono andato a studiare. Dove ha 61 amici, per lo più di Tunisi. Dove all’indomani della strage di Charlie Hebdo e del negozio Kosher, inneggia ai fratelli francesi. Posta molte foto. E qui rivela qualcosa di diverso dagli standard cupi dell’Isis, tesi a seminare orrore e terrore. Perchè tranne in due o tre foto dove cerca, imbracciando un’arma, di tenere un atteggiamento marziale, sono fotografie in cui sorride. Una fotografia è la smentita della marzialità: è armato, ma in dorso a un asinello. Sì, ce n’è una in cui si accovaccia accanto a un bambino vestito da combattente, ma altre dove semplicemente sta in mezzo a gruppi di bambini giocosi. E le fotografia con i membri del suo gruppo di combattimento, non esibiscono bandiere nere, ma pranzi consumati insieme, soste sulla riva di un fiume, grigliate all’aperto. Tranne lui, sono tutti brutti ceffi, ma sembrerebbero un gruppo di balordi, o una setta da reverendo Jones, o vecchi e suonati rockers di una comune, non i raccoglitori di teste mozzate. E’ come se Abo’u Izat Al Islam in questi album non volesse separarsi dal sorriso di Neji Ben Amara, o non sposare troppo l’odio. L’ultimo messaggio- il penultimo è una ripetizione di Allahu Akhbar e di Jihad – due o tre giorni prima di morire, mette quasi tenerezza: “ciao a mamma Halima….”. E, come per un cedimento alle vecchie passioni, tra i preferiti mette la squadra di calcio di Tunisi per cui tifava, l’Esperance sportive di Tunisi.
Adesso… è morto, ucciso da un colpo di una donna, ciò che secondo il disprezzo jihadista, gli negherà anche il paradiso. A Tunisi la famiglia ha celebrato un funerale senza corpo, e hanno messo in giro la voce che è morto sotto le bombe giordane, come per dire che il paradiso non lo ha rifiutato. Non lo aveva rifiutato l’Italia, dove tutto sommato si era inegrato. Non era stato un ribelle, nè un rapper, nè uno spacciatore reclutato in galera.
Sono tornato a mani vuote alla domanda di partenza: perchè ? Ho un solo indizio, ma è il più inquietante: per dare un senso alla vita, per una lettura bruciante della fede. Credo si sbaglino quelli, a partire da Obama, che ci confortano dicendo che lo jihadismo non ha nulla a che vedere con l’Islam. Milioni di musulmani temono l’Isis, ma temono anche la seduzione della parola Califfato, il fascino antico della jihad come Ulisse temeva le sirene. Qualcosa di famigliare, di suadente, di imperioso, come un richiamo dal profondo dei tempi. Per qualcuno, in Romagna e a Milano, la sua scelta rimane un mistero. Per molti, a Tunisi, il ragazzo con il sorriso, il ragazzo che non solleva teste tagliate è solo un pio, un generoso, uno che ha risposto alla chiamata. Se non capiamo questo dobbiamo affidarci al coraggio e alla precisione delle donne curde, che davanti allo sterminio, alla schiavitù, alla riduzione a oggetti, non hanno sorriso.